Fra il panettone di Natale e la colomba di Pasqua c’è di mezzo Sanremo. E come il panettone e la colomba, alla fine ci piace il Festival di gusto classico. Niente innovazioni strane, farciture diverse, gusti esotici. No, il buon caro vecchio Festival con tutti i crismi: il bravo presentatore, la bella valletta, le frasi “ ed ecco a voi..” e “dirige il maestro…”. Seguiamo, spesso il crollo della palpebra, i soliti siparietti triti e ritriti, le battute ormai piene di ragnatele, i finti equivoci, le finte sorprese. Ci beviamo le interviste sull’ultimo disco, sull’ultimo film e, quando c’è un ospite straniero ci domandiamo per l’ennesima volta come sia possibile che nessuno, fra conduttori e presentatori sappia spiccicare quattro paroline in croce. Spariamo a zero sull’abbigliamento dei cantanti però speriamo che quello che viene dopo sia vestito ancor peggio per dire “ma no!!! Ma come l’hanno vestita”. Ascoltiamo le canzoni e man mano ci sentiamo grandi espertoni musicali che si intendono di note calanti, di registri troppo acuti, di intonazione scorretta. Dopo questa lunga maratona, ci sarà un vincitore che per un po’ vedremo ovunque in televisione ma che poi finirà nel tritacarne mediatico. Inutile illudersi che questa formula possa cambiare, in passato sono stati fatti dei tentativi per modernizzarlo ma sono stati fallimentari perché il Festival non deve piacere, ma esiste per essere criticato anche ferocemente. Quest’anno sono sotto esame Claudio Baglioni e i cantanti over 65 che sembrano usciti dal museo di Madame Tussaud e tutti a dire che sarebbe ora di passare il testimone ai giovani, andate in pensione che è meglio! Ma bastano due note di “Piccolo grande amore” che anche il cuore dei più agguerriti freme, cerca di resistere, lancia l’ultima frecciata sul botox ma poi cede, si allaga di nostalgia e di rimpianto di quella sua maglietta fina.